Delle giornate in ospedale

Ci sono state quelle giornate lunghissime, infinite, che gli occhi bruciano, la gola è secca e lo stomaco si contorce.

Quelle giornate in cui hai dovuto aspettare ore infinite tra una terapia e l’altra e tra la corsa ad un medico ed una alle infermiere, perso nei corridoi, in attesa di una chiamata o di essere ricevuto.
E ti sei trovato a parlare, o più che altro ad ascoltare delle storie; di persone sedute accanto a te, delle persone in attesa, come se l’ospedale fosse la grande sala d’attesa del mondo, dove stazioniamo in un purgatorio di sofferenza, in attesa di sapere se nella vita avremo il paradiso o l’inferno in terra.

Ti sei trovato a vedere volti, persone, ad ascoltare parole, pianti, a condividere sorrisi e momenti di gioia (pochi a dire il vero) e te li sei creati i momenti belli, te li sei creati e te li sei portati dietro tutto il giorno, come un diamante da custodire gelosamente e da tirare fuori la sera nel letto, quando le forze ti abbandonano, i pensieri negativi arrivano ed hai un bisogno disperato di un diamante che illumini le tue notti.

In ospedale sembriamo tutti più comprensivi, amorevoli, amicali, empatici, ma la realtà è che, a parte alcuni che realmente provano questi sentimenti, non ce ne frega nulla, siamo egoisti come nella vita di tutti i giorni, come sul lavoro, e vorremmo solo stare bene, fregandocene del destino di chi ci è accanto.

Vogliamo solo sfogarci, parlare, essere capiti, essere compresi. A volte parliamo più per noi stessi che per l’interlocutore, che annuisce annoiato e con cui spesso scatta la gara del dramma, a chi è più disperato o col male più grande. Siamo onesti, questo è uno sport in cui riusciamo ad eccellere.


Se disgraziatamente farai parte della categoria dell’ascoltatore, ti ritroverai ad aggiungere alla tua sofferenza il carico emotivo ed il dolore della persona che hai avuto davanti, perché non è vero che “mal comune mezzo gaudio” e che l’essere sulla stessa barca ci faccia sentire più sollevati. L’ascoltare il dolore ed andare ad aggiungerlo alla nostra sofferenza ci devasta.

Per questo mi piacciono quelle persone che riescono a sorridere, a dire due parole senza esagerazione, ad ascoltare il giusto e a parlare ancora meno, magari offrendoti un po’ d’acqua o un abbraccio. Ci sono stati abbracci da persone mai viste che hanno saputo scaldare i cuori più disastrati, perché l’abbraccio di uno sconosciuto non può essere che onestamente sincero e privo di secondi fini, può scaturire solo dal cuore ed arrivare dritto al cuore.

Ci sono state persone che non dimenticherai mai ed il bello è che quelle persone nemmeno lo sapranno, persone che hanno sfiorato le dure giornate in ospedale per un lasso di tempo brevissimo. Mi piacciono quelle persone che hanno negli occhi la sofferenza più grande del mondo, ma che riescono a regalarti un sorriso e a scaldarti come una coperta.

Le piccole ma grandi cose belle che ti fanno sopravvivere ad una giornata in ospedale sono, in ordine sparso:

La macchinetta delle merendine, quella delle bevande, i bagni quando sono puliti, le persone gentili, il chewing gum del pleistocene che ritrovi nel fondo della borsa ed il fazzoletto di carta che hai in tasca dal giorno prima, il messaggio dell’amico che non si è dimenticato di te.
Ma soprattutto quella persona speciale che molla tutto per venire a tenerti la mano.
Anche se molto spesso, purtroppo,  quella mano è solo la tua, quella che hai tenuto conserta alla fine del tuo braccio. Stringila e ricordati della tua forza.

E se un giorno veniste a sapere che un caro amico o una persona che vi sta a cuore transita in ospedale in un limbo di attesa, mollate tutto e correte da lei. Un’ora, due. Non lo dimenticherà mai, non dimenticherà quella mano in più, al pari del calzino gemello ritrovato in fondo alla lavatrice, o del parcheggio sulle strisce bianche non a pagamento, sul Lungotevere, proprio davanti al ristorante, di sabato sera nel 2010.

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